Divine poteva sembrava innamorata. Arricciava le labbra in un sorriso tenero, malizioso e complice, abbassava gli occhi e poi, senza preavviso, li puntava di nuovo nei tuoi. E non potevi uscirne indenne. Ti amo, diceva con quegli occhi.
Ti amo, diceva, sono tua e ti voglio.Era capace di sillabarlo in uno stillicidio di promesse rese splendenti dal rossetto e dal vino, senza nemmeno aver bisogno di schiudere le labbra.Divine poteva sembrare innamorata, anche se di innamorarsi non le era mai capitato.Ma su quei letti, fra quegli stucchi eccessivi e gli specchi che impudichi riflettevano le oscenità che vi si consumavano, che fosse vero non aveva nessuna importanza.I postriboli sono il regno del verosimile, dell’immaginazione sfrenata, del desiderio soddisfatto.Sono il regno della carne e dell’anima, inscindibili ed inconciliabili.Gli specchi, e i quadri, le tende damascate e i profumi penetranti, l’incenso e i veli, l’Ostentazione e il Vizio, il Vino e la Morte e l’Amore – un amore consumato, stanco e disfatto, ma comunque orgoglioso nel suo essere tirato a lucido – erano racchiusi tutti nel sorriso di Divine.Aveva guardato tutto quello, l’aveva fatto scorrere sotto la sua pelle, nelle vene, l’aveva racchiuso in sé.Adesso lo rifletteva, Venere perfetta, Cibele incantatrice di belve, Arpia e Musa di quel tempio maledetto da Dio e dagli stessi uomini che la richiedevano ogni notte. Rifletteva in un sorriso il potere che aveva conquistato, le labbra perfettamente disegnate che si piegavano maliziose o crudeli sulla pelle di chi l’amava e la malediceva.Divine non poteva amare più.
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